C’è Ancora Domani
Quando un successo è di una portata tale da lasciare sbigottiti, la produzione posteriore per spiegarne il clamore diventa genere letterario a sé, esattamente come accaduto per Barbie (come abbiamo provato a fare anche noi qui), esattamente come sta accadendo per C’è Ancora Domani scritto, diretto e interpretato da Paola Cortellesi. Se però Barbie ha avuto dalla sua un’imponente campagna di marketing e, oltreoceano, la felice combinazione di un ticket condiviso con Oppenheimer di Nolan (la nostra recensione), il film di Cortellesi si è imposto nelle sale come un Marvel della fase due senza essere stato ritenuto degno di finanziamento pubblico.
Si dice a Wall Street che arrivare troppo in anticipo sui tempi è come avere torto, C’è ancora domani ha dalla sua la forza della ragione arrivando al momento giusto: la conversazione sulla condizione della donna (sì, “condizione”, come se parlassimo di una specie da tutelare) ha finalmente raggiunto una massa critica non più ignorabile, né derisibile. Il #metoo negli Usa ha avuto l’impatto di un’onda travolgente mentre in Italia aveva prodotto giusto un’increspatura, con il femminismo fino a non molto tempo fa ancora percepito come una caccia alle streghe contro gli uomini, ma – in estrema sintesi – una crescente attenzione verso i femminicidi e l’omicidio di Giulia Cecchettin, diventato motivo di dolore e lutto nazionale, hanno aperto un varco là dove c’era solo una crepa. In questo momento storico il film di Cortellesi arriva nelle sale trovando un pubblico desideroso come non mai di confrontarsi con una pellicola che racconta l’oppressione sistemica subita dalle donne, e lo fa attraverso il linguaggio del neorealismo, genere conosciuto e familiare che ha permesso anche al pubblico solitamente più refrattario a certi argomenti di sentirsi a proprio agio.
Quello del neorealismo, però, è solo uno stratagemma e l‘intera storia è più una rievocazione in costume dell’Italia del dopoguerra: a una parte del pubblico è bene parlare così, con un bianco e nero rassicurante che illusoriamente fa percepire come lontana nel tempo una realtà fatta di quotidiano abuso sulle donne, ma che la bravura della regista riesce a far risuonare come strettamente attuale.
In C’è Ancora Domani il pubblico ritrova il talento eclettico e versatile di Cortellesi unitamente alla sua ironia, leggera e sagace, che impedisce al film di diventare un drammone didascalico. La storia è congeniata per mostrare una situazione di ordinaria mortificazione in cui l’ultimo dei maschi può quanto meno rifarsi sulla propria moglie, ma è comunque un piacere seguire le vicende della protagonista femminile che viene presentata subito come vitale e combattiva nell’unico modo in cui una donna poteva esserlo, ovvero aggirando il controllo maschile, fingendo sottomissione nell’immediato con lo sguardo rivolto al futuro, in questo caso rappresentato dalla figlia da proteggere e instradare su un percorso di autodeterminazione svincolato dalla presenza maschile. La storia di Delia è messa in scena con tale naturalezza che la regista può permettersi il lusso di un red herring, certa che a quel punto della narrazione, tutto il pubblico avrebbe avuto il cuore in mano per le sorti della protagonista e non avrebbe desiderato altro che il suo bene, che arriva, ma con una risoluzione forse prevedibile ma non per questo meno efficace e potente. Il punto, infatti, non era sorprendere o spiazzare, ma suscitare una partecipazione emotiva e psicologica che facesse temere il peggio anche se probabilmente si era capito quale sarebbe stato l’epilogo.
C’è ancora domani è un riconoscimento per tutte le donne che hanno in qualche modo – sia attivamente che silenziosamente – pavimentato la strada dei diritti di cui godiamo oggi evidenziando quanto sia stato fatto e quanto non sia ancora lontanamente sufficiente, perché se possiamo godere di un lieto fine liberatorio, la consapevolezza che tutto quello che viene mostrato sia attualissimo, inclusa l’attuazione del gender gap salariale, colpisce nel profondo.
Silent Night
La buona notizia è che Hollywood e John Woo hanno fatto pace. La brutta notizia è che le buone notizie finiscono qui: Silent Night non riesce a tenere fede nemmeno alla promessa del titolo. Brian Godlock (Joel Kinnaman) è un bravo padre di famiglia, lavora duro e si prende cura di moglie e figlio. Ma quando lo incontriamo per la prima volta sta seguendo l’auto di una gang, probabilmente composta da eredi degli Stormtrooper considerando la loro incapacità di ucciderlo da – letteralmente – una manciata di centimetri. Dopo essersi svegliato dal coma, con una lesione alla gola che gli impedisce di parlare, Brian dedica la sua vita a trasformarsi in una macchina da guerra per vendicare la tragica morte di suo figlio.
Lo spunto è quello classico dei film alla John Wick (filone attraverso cui Hollywood ha saccheggiato John Woo, bel cortocircuito), ma l’esecuzione è semplicemente incomprensibile. Silent Night dovrebbe strizzare l’occhio ai film action natalizi, giocando sul mutismo obbligato del suo protagonista: ottime idee, non fosse che mai avrei pensato al natale se non venisse citato esplicitamente, per non parlare di quel problemino che il buon Brian a un certo punto del film urla. Poco male, in fondo, in un film simile l’importante è altro, ma la pellicola si prende eccessivamente sul serio per l’intera sua durata, rendendo impossibile (quanto meno a me) ignorare che Joel Kinnaman sia grosso come un tronco di quercia ben prima di allenarsi (e vestirlo largo come un rapper del ’92 non serve a nulla, John). L’apice del nonsense però è il comportamento della moglie che lo lascia dopo aver scoperto che sta preparando una strage, per poi scrivergli preoccupata perché non lo sente da un po’. Almeno l’azione è ottima? Uhm. Ben diretta, senza dubbio, ma nulla di che. Concordo che il trend degli youtuber che recensiscono i buchi di trama sia stato una sciagura per l’umanità e per la critica, ma l’unico modo in cui si può passare l’onesta durata (meno di due ore!) di Silent Night è sghignazzando e dandosi di gomito. Alla fine la vendetta è quella di Woo su Hollywood, immagino.
(Claudio)
Unica (Netflix)
Un docufilm in cui Ilary Blasi offre la sua versione dei fatti sulla fine del matrimonio con Francesco Totti. Il tutto risulta in una trasposizione romanamente farsesca della tragedia di Otello in cui al posto del fazzoletto troviamo una tazzina di caffè.
La storia, spesso comica se non involontariamente camp, è più che altro interessante dal punto di vista sociologico: prima ancora di essere il gossip tricolore per eccellenza, la coppia formata da Blasi e Totti apparteneva a Roma e la Capitale si è svegliata una mattina con il dolore della separazione dei figli prediletti, una questione di famiglia da affrontare come dramma collettivo in una Capitale che in realtà è un enorme pianerottolo condominiale.
Blasi e Totti si separano, dunque, ma nessuno dei due ci sta a essere additato come il colpevole della fine. L’ex capitano della Roma, dopo aver affidato i suoi stati d’animo alla cerchia ristretta di persone fidate, l’estate scorsa ha rilasciato un’intervista in cui dice di essersi sentito abbandonato dalla compagna in un momento per lui di grande fragilità, l’addio al calcio. Ilary non ci sta a passare per la moglie egoista a cui addebitare il fallimento del matrimonio, ma decide di aspettare il momento giusto per scoccare la freccia più avvelenata nella faretra di ogni vip: l’esclusiva Netflix.
Il docufilm è quindi modo e mezzo per raccontare la sua versione dei fatti, ma assolve anche a un altro compito, fondamentale per una persona che lavora nello spettacolo: fare pace con i giornalisti. Blasi, ospite in studio della trasmissione Verissimo, aveva preso per buona e difeso l’iniziale versione di suo marito, bollando apertamente con epiteti poco cortesi i giornalisti mentitori e sciacalli. Il tempo però dà ragione alla stampa e lei si rende conto di essere stata mandata allo sbaraglio da una persona che più di chiunque altra avrebbe dovuto sapere cosa significa fare “squadra”.
Il tradimento, le amiche, le comiche con il cart, il tassista romano che cambia team e inizia a tifare per Ilary, le ripicche e i dispettucci da centinaia di migliaia di euro (i rolex e le scarpe presi in ostaggio), una commedia all’italiana in cui l’unico elemento che lascia davvero il segno, stando alla versione di Blasi, è il ritratto di un uomo incapace di avere un’identità fuori dal campo e che per questo tenta di impedire alla compagna di avere miglior sorte continuando a lavorare. In fondo, il tifoso allo stadio per l’addio al calcio di Totti, parlando di sé aveva colto in pieno lo stato d’animo del campione: “Speravo de morì prima”.
The Killer (Netflix)
L’amarezza per non aver avuto una terza stagione di Mindhunter risulta maggiormente acuita dalla visione di The Killer firmato da un Fincher privo di ispirazione che mette in scena un Fassbender che svolge egregiamente il suo compito che è quello di sparire dalla memoria subito dopo aver visto il film.
Il protagonista è un mercenario che viene presentato come un’entità infallibile, meticolosa e spietata che però sbaglia per distrazione e ne paga le conseguenze avendo delle persone care su cui l’organizzazione per la quale lavora può rifarsi. Insomma, iniziamo con il contraddire la premessa. Da quel momento è un susseguirsi di scene ampiamente prevedibili accompagnate dal costante dialogo interiore del protagonista che non aggiunge alcun interesse a una storia tenuta in piedi da un regista che è pur sempre uno dei migliori della sua generazione, anche con un braccio legato dietro la schiena. C’è di meglio, ma anche di peggio.
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